Il malato immaginario
di Molière
Regia di Maria Grazia Bettini
Durata:
La rappresentazione si svolge in un ambiente asettico, con una poltrona su cui siede un benestante borghese ipocondriaco, due sedie, un tavolino pieno di pozioni e attrezzi medicali, un letto sempre pronto ad accogliere il “malato”. La stanza vuole essere la metafora della sua solitudine e la prigione della sua nevrosi/depressione.
Argan spreca la sua vita fra poltrona, letto, toilette, clisteri e salassi. Sotto la cuffia candida, nella vestaglia stropicciata, nelle calze molli sui piedi ciabattanti, si trova un’incapacità genetica a prendere qualsiasi decisione. Il suo contraltare è Tonina, una cameriera tuttofare, che il padrone vive spesso come un incubo, onnipresente e impicciona, che vede tutto e tiene in mano tutto.
Ossessionato dalla propria salute e convinto che non ci sia nulla di più importante della Medicina, Argan ha deciso di dare in moglie a un medico goffo e pedante la propria figlia maggiore Angelica, che è invece innamorata di un bel giovane. Alle spalle di Argan trama Belina, la sua seconda moglie, che vuole impossessarsi dell’intero patrimonio del marito. A dar man forte ad Angelica ci sono però Tonina, molto arguta e determinata, e Beraldo, il fratello saggio del “malato”, che convincono Argan a fingersi morto. La reazione di grande cinismo e soddisfazione di Belina per l’agognato decesso del coniuge e la genuina disperazione di Angelica per la morte del padre, lo convincono a scacciare la moglie e a dare in sposa la figlia al suo innamorato, a patto però che il giovane diventi medico. Nel finale Argan, che accetta di essere insignito ad honorem della laurea in medicina, viene circondato da un balletto di falsità e canzonatura proprio da quelle figure tanto odiate e sbeffeggiate da Molière.
Dietro al protagonista, malato immaginario, c’è Molière, malato vero. È l’attore Molière che muore nel suo personaggio, come avvenne realmente alla Comedie Francaise la sera del 17 febbraio 1673.
NOTE DI REGIA
La regia ha ambientato la commedia nell’Ottocento, dove accanto alle nuove terapie, sopravvivevano le vecchie, tra le quali un posto immeritato era occupato dal salasso. Il salasso, insieme col purgante/clistere, l’emetico e il diuretico, aveva lo scopo di ridurre l’umore (il sangue) che si presumeva essere in eccesso, e veniva applicato sia nei pochi casi nei quali era utile sia nei molti nei quali era inutile o dannoso. Alcuni medici praticavano il salasso fino quasi a dissanguare il paziente: era l’epoca delle terapie “eroiche”. In assenza di terapie migliori, il medico, nel XIX secolo, non aveva modo di diagnosticare esattamente le condizioni di salute del paziente e applicava il salasso e il clistere indiscriminatamente.
In questa messa in scena sono forse stati attenuati i toni drammatici per privilegiare la sostanziale struttura comica del testo, che però si stinge talvolta in smorfia e amarezza quando veicola per bocca di Beraldo (alias Molière) serie riflessioni sui disvalori della società, sulla vita e sulla morte.
Il grottesco quindi prevale sulla farsa, la comicità è bonaria e immediata.
Se è vero che vivere è essere malati, che cioè sin dalla nascita tutti siamo malati terminali, è altrettanto vero, e ben si addice al nostro protagonista, ciò che diceva Enzo Jannacci in “Quelli che”: “…quelli che vivono da malati per morire da sani”.